Grey economy: la crisi combattuta dai 50enni (negli Usa e in Germania)

16 Ago

(Federico Rampini, La Repubblica, 15 agosto 2012)

NEW YORK Abbiamo costruito noi questa crisi, saremo noi a risolverla. La generazione del baby boom affronta la prova più importante: lasciare ai figli un’economia rinata, un bilancio pubblico sostenibile, le condizioni per una ripresa dell’occupazione. Dagli Stati Uniti alla Germania, c’è una musica nuova. Basta piagnistei sullo shock demografico, sul crac delle pensionie della sanità, sul terremoto sociale provocato dall’arrivo alle soglie dell’età pensionabile dei babyboomer (i più anziani dei quali stanno per raggiungere la fatidica soglia dei 65 anni, età legale della pensione in molti paesi occidentali). Stufi di essere colpevolizzati, i baby boomer vogliono essere la soluzione, non il problema. In America si rimboccano le maniche e decidono di lavorare fino e oltre i 70 anni, anche per supplire all’impoverimento collettivo della grande crisi. La più prestigiosa università privata della California, Stanford, ha creato un istituto che si chiama Longevity. Questo centro non si o c c u p a m i n i m a mente di geriatria, bensì del “lato positivo” della longevità: come sfruttarne le potenzialità mettendo a frutto le riserve di energie, di intelligenze e di competenza della generazione più numerosa. Proprio Stanford, a Palo Alto nel cuore della Silicon Valley, è il centro di un’economia fondata sui “ragazzini” come Mark Zuckerberg di Facebook. Eppureè lì che il Longevity Institute equipara la generazione delle “pantere grigie” (o brizzolate) a una nuova risorsa strategica, su cui fare perno per un’altra ondata di innovazioni, alla pari con le energie rinnovabili e la biogenetica, i Big Data e le nanotecnologie. Solo negli Usa, i nati fra il 1945 e il 1965 sono 76 milioni, più di un quarto della popolazione. Ne fanno parte gli ultimi tre presidenti: Bill Clinton, George Bush e Barack Obama. In Inghilterra controllano l’80% della ricchezza nazionale. I demografi ci hanno descritti come “il maiale dentro il pitone”, per illustrare graficamente il rigonfiamento nella “pancia” della popolazione: prima di noi, i nostri genitori erano stati decimati dalla guerra e comunque non vivevano così a lungo; dopo di noi ci sono le generazioni sottili della denatalità. Questo “accidente” demografico, unico nella storia dell’umanità, è diventato l’occasione per un processo. A sentire i governanti che applicano l’austerity, i banchieri centrali, gli esperti di pensioni, saremmo noi il peso che affonda i bilanci pubblici in tutto l’Occidente. Siamo accusati – a turno – di stare incollati alle nostre poltrone escludendo i più giovani; o viceversa di oberare le future generazioni col costo delle nostre pensioni. Generazione-sandwich è un altro nomignolo: schiacciati come il prosciutto nel panino in mezzo a due pressioni, da una parte gli anziani a cui bisogna pagare le pensioni, dall’altra i figli che non trovano lavoro. Se andiamo in pensione troppo presto sfasciamo i conti pubblici, se non ci andiamo siamo il “tappo” che rallenta le assunzioni dei giovani? A invocare la riscossa della generazione dei baby-boomer, è sceso in campo l’ultimo diretto(segue dalla copertina) re del New York Times e oggi autorevole opinionista dello stesso quotidiano, Bill Keller. Che ha scritto una sorta di Manifesto per tutti noi, le generazioni che includono i Clinton e gli Obama.  “The Entitled Generation”, ci definisce Keller: che si può tradurre come “La generazione privilegiata”. Keller riprende tutti i capi d’imputazione che ci sono stati rivolti. Da destra, la generazione dei baby boomerè accusata di avere partorito il Sessantotto e il femminismo, le rivolte antiautoritarie e il boom della marijuana, tutto ciò che ha fatto a pezzi i valori tradizionali, il collante della società. “La Peggior Generazione”, la definì un consigliere di Bill Clinton, Paul Begala, che descrive i baby boomer come «i più egoisti, egocentrici, autoreferenziali, presuntuosi, indulgenti con se stessi». Keller contrattacca: «Tra noi ci furono quelli che andarono a combattere in Vietnam e quelli che protestarono contro la guerra. Dai nostri ranghi sono usciti i banchieri d’azzardo di Wall Street ma anche i geni imprenditoriali di Steve Jobs e Bill Gates». Il capo d’accusa più importante è in un rapporto-bomba della Third Way, un think tank vicino al partito democratico. È una radiografia della spesa pubblica negli ultimi 50 anni, reinterpreta la storia economica con un criterio nuovo. Divide il ruolo dello Stato in due missioni fondamentali. Da una parte gli investimenti: la modernizzazione delle infrastrutture, la scuola, l’università. Un’altra parte corposa della spesa pubblica sono gli “entitlement”, i diritti acquisiti: pensioni, assistenza sanitaria. Via via che la generazione dei baby boomerè passata dalla giovinezza all’età adulta, dagli studi alla professione, dalla contestazione al potere, la “linea blu” degli investimenti è scesa, mentre la “linea rossa” dei diritti acquisiti è schizzata verso il cielo. Nel 1962, per ogni dollaro di spesa federale 32 centesimi venivano destinati agli investimenti, solo 14 centesimi andavano ai diritti acquisiti. Oggi gli investimenti sono crollati al 14% mentre i diritti acquisiti assorbono il 46%. «Nel 2030 – scrive Keller – cioè nell’anno in cui il più giovane di noi baby boomer andrà in pensione, i diritti acquisiti assorbiranno il 61%e per gli investimenti nel futuro non resterà quasi nulla». Keller mette i baby boomer di fronte alla sfida di oggi. «Non è colpa nostra se siamo tanti. È colpa nostra se facciamo resistenza contro il cambiamento. Forse non siamo la più nobile di tutte le generazioni, ma essendo la più larga, possiamo usare il nostro peso per spostare le politiche nella direzione giusta». L’editoriale di Keller ha scatenato un vespaio di reazioni. La maggior parte dei lettori del New York Times – ovviamente baby boomer – non accettano neppure la definizione di “entitlement”: quasi che pensioni e assistenza sanitaria fossero un privilegio calato dall’alto e non dei diritti guadagnati, finanziati con le tasse e i contributi sulla busta paga. Ma lo spirito che anima Keller è vivo e vegeto in un’altra reazione della società americana. Che studia come attrezzarsi per trasformare lo shock demografico in una rivoluzione positiva. Mettendo a frutto le straordinarie energie della generazione più popolosa, per farne un motore di rinascita. L’industria e il marketing hanno già lo sguardo verso l’orizzonte più lontano. Dopotutto un mito del made in Usa come la moto Harley Davidson è rinato da quando è diventato l’oggetto del desiderio per gli ex-hippy, ex contestatori, la tribù attempata di Woodstock e della Summer of Love. In Germania sono le aziende a ripensare il pensionamento flessibile in modo rovesciato – non per pre-pensionare, ma al contrario per prolungare il contributo di consulenza e di formazione dei dipendenti più anziani. In America si ri-progettano ufficie luoghi di lavoro, per adattarli ai ritmi di vita e di concentrazione delle “pantere grigie”.  Risultato: mai come oggi, così tanti americani over-65 e perfino over-75 sono stati al lavoro. Le statistiche attuali, che hanno iniziato ad essere raccolte dal 1981, mostrano che non vi sono precedenti per questo livello di occupazione tra gli anziani. O “pre-anziani”? Appartenenti alla “seconda età adulta”? Proliferano i neologismi per descrivere la nascita di una nuova generazione, che andrà distinta in qualche modo dai pensionati. Ecco i numeri. Tra i maschi fra i 65 e i 69 anni di età, negli Usa più di un terzo oggi continua a lavorare. Fra le donne della stessa fascia, più di un quarto sta lavorando. Una quota di questi anziani non si ritira dall’attività perché non può permetterselo. Il valore complessivo dei risparmi degli americani è più basso del 15% rispetto al 2007, è l’impoverimento provocato dalla caduta della Borsa durante la crisi. Dunque, molti continuano ad aggrapparsi al lavoro per non diminuire il proprio tenore di vita.  Un’altra parte degli over-65 in America continua a lavorare per tutt’altre ragioni: trova nell’attività un ruolo, uno status sociale, una ragione di vivere, un anti-depressivo. In una parola sola: una missione. Secondo un’indagine demoscopica commissionata all’Associated Press dalla LifeGoesStrong, il 25% dei baby boomer «ha deciso che in pensione non vuole andarci mai». Non si aggrappa al posto fisso, concetto inesistente negli Stati Uniti: molti di questi baby boomer hanno scelto la strada del lavoro freelance, della consulenza, della formazione dei giovani, anche il volontariato. Di questa crisi hanno capito che non sarà passeggera.E come in tutti i frangenti della storia che li hanno visti protagonisti, i baby boomer d’America hanno chiara una cosa: nel bene o nel male, come ne usciremo dipenderà da loro.

(Andrea Tarquini, La Repubblica, 15 agosto 2012)

Via gli esuberi, largo ai prepensionamenti, così taglieremo i costi e torneremo grandi. Déjà vu, musica già sentita, mantra che a volte sembra aver gettato investitorie manager europei e non solo in una dipendenza tossica. E invece no, non è vero. Non lo dicono associazioni dei pensionati, né organizzazioni benefiche. Lo pensa, e così agisce, le patronat allemand, insomma gli imprenditori dell’economia più grossa, globale e competitiva d’Europa, quella tedesca. No, signori, dietrofront: i dipendenti anziani servono troppo, sono indispensabili. Vanno tenuti in azienda, o riassunti se sono stati prepensionati. Perché la loro esperienza, la loro qualifica, il loro know-how nel produrre ma anche nel creare un buon clima sul lavoro e nell’indovinare i gusti del pubblico sono indispensabili.  Vanno tenuti in azienda, o riassunti se sono stati prepensionati. Perché la loro esperienza, la loro qualifica, il loro know-how nel produrre ma anche nel creare un buon clima sul lavoro e nell’indovinare i gusti del pubblico sono indispensabili. E se lo dicono gli imprenditori tedeschi, che quanto a competitività stracciano americani e giapponesi in quasi ogni comparto, avranno le loro ragioni e la loro convenienza. La storia non è inventata, è stata scoperta dagli investigative reporters della Bild, il quotidiano più letto d’Europa.  Bosch e Volkswagen, Bmw e la parte tedesca di Airbus industrie, il gigante della distribuzione Otto, la blasonata Daimler cioè Mercedes, e ancora il colosso farmaceutico-chimico Bayer e la Abb di elettronica e multicomparto, o Fraport, la società che gestisce l’aeroporto di Francoforte realizzando grossi utili alla Borsa pochi chilometri dalle piste e dai terminal, hanno scelto questa via. «La grande, multiforme esperienza e preparazione dei nostri dipendenti più anziani è un atout che stimiamo moltissimo», dice Nicole Adami, del gruppo Otto. Il colosso delle vendite postali e online ha addirittura creato una società controllata per gestire il rientro delle “pantere grigie” pensionate o prepensionate negli anni scorsi. Servono, magari non a tempo pieno ma come consulenti con un ruolo centrale: le pantere grigie tedesche sono diventate un’arma segreta della più forte industria esportatrice al mondo dopo quella cinese. «Per noi è necessario anche fare i conti con le svolte demografiche», spiega ancora Frau Adami: una società con più anziani e meno figli in media per famiglie produce anche meno lavoratori qualificati, a ogni livello. Alcuni dei riassunti sono avanti negli anni, ma energici più che mai, pieni di voglia di fare qualcosa per gli altri. Come Jochen Michalczyk, 69 anni, ripreso da Otto e usato come esperto per i problemi-chiave sul mercato. Alla Bosch, simbolo di eccellenza mondiale nell’elettronica per l’auto e non solo, si sono affrettati a spulciare negli archivi degli ex dipendenti. Risultato: una lista dei millecinquecento migliori ex, subito contattati e subito dichiaratisi pronti a lavorare. Il lavoro di seicento di loro per l’azienda, l’anno scorso, sommato, conta per 55mila giorni attivi. «Sono molto meglio di esperti esterni, capiscono velocissimi i problemi e trovano le soluzioni migliori», dice un portavoce aziendale. Uno di loro è Fritz Baumann, 66 anni. «Andai in pensione nel 2006, poco dopo fui richiamato come consigliere per un progetto-chiave in Russia», racconta. «Non conta la paga, ma la soddisfazione di comunicare la mia esperienza ai neoassunti, e in generale ai colleghi più giovani». Stessa sinfonia alla Volkswagen, il colosso dell’auto maestro di cogestione, che già è in corsia di sorpasso per strappare a Gm e Toyota la medaglia d’oro di primo produttore mondiale d’auto. L’esperimento di 13 riassunzioni di pensionati a Hannover è andato a gonfie vele, «quei colleghi», affermano in azienda, «sono un tesoro di esperienza, e portano un clima di passione per il lavoro». O a Continental, il gruppo tedesco dei pneumatici di qualità, dove 64enni come Herbert Luehmann sono tornati a fare i capireparto part time, tre giorni alla settimana, nel settore ricerca. Non è filantropia, è che gli over sixty sono indispensabili per i global players del made in Germany, nello scontro della mondializzazione con i giganti di altri paesi. Le ricadute sociali della svolta non sono però meno grandi o meno positive, solo perché la svolta viene, spinta dalla caccia al profitto.

(Bill Keller, The New York Times – www.nytimes.com, 29 luglio 2012)

The Entitled Generation

If you were born before 1946 or after 1964, you are free to go. Kindly close the door on your way out. I need a private moment with my fellow baby boomers. So. I imagine you’re all feeling a little unappreciated these days. We seem to have entered one of our periodic seasons of boomer-bashing. In rapid Op-Ed succession, we children of the postwar demographic bulge have been blamed for turning religion into an indulgent free-for-all, for giving elites a bad name and for making greed respectable, or at least acceptable. That’s just this month, and just on this page. And it’s not only conservatives beating us with the Woodstock whip. Kurt Andersen, a confessed liberal and one of our more prolific cultural omnivores, started the latest thumping July 4 with an argument that amoral self-gratification is just the flip side of social liberation: “Thanks to the ’60s, we are all shamelessly selfish.” The notion that our generation has been spoiled rotten is not a terribly new thought. A dozen years ago Paul Begala (of Bill Clinton and CNN fame) published in Esquire the classic of boomer-loathing, “The Worst Generation.” “The Baby Boomers are the most self-centered, self-seeking, self-interested, self-absorbed, self-indulgent, self-aggrandizing generation in American history,” he declared. It’s a sturdy genre. Perhaps while Googling yourself you have come across the blog Boomer Deathwatch (“Because one day, they’ll all be dead”), a checklist of famous boomers who hit their actuarial sell-by dates. Even Barack Obama, who styles himself post-boomer though he was born in 1961, complained in “The Audacity of Hope” that today’s hyperpolarized political discourse began with the “psychodrama of the baby boom generation.” Yes, yes, this criticism is glib. We didn’t start the war in Vietnam, but members of our generation fought both in it and against it, demonstrating some of the spirit of sacrifice we are not famous for. Our ranks include the outsourcers of Bain and the wizards of the Wall Street casino, but also the entrepreneurial genius of Steve Jobs and Bill Gates. The Bill Clinton of Monicagate was the first boomer president, but so was the Bill Clinton of relative peace and prosperity. Our record-buying dollars gave the world disco — so sorry about that — but also Motown and Springsteen. I’d say the argument will continue forever if that didn’t sound like such an all-about-us, boomer thing to say. But even though the caricature is way too easy, it has stuck, and we all know that it contains more than a nugget of truth. We are an entitled bunch. This brings me to a soon-to-be released study by the incorrigible pragmatists at Third Way, the centrist Democratic think tank. The study takes a familiar refrain and presents it with a graphic wallop. Though it was intended as a wake-up call, not an indictment of a generation, it can be read as both. The authors examined two categories of federal spending over the past 50 years, representing two of government’s fundamental missions. One was “investments,” which includes maintaining our national infrastructure, keeping our military equipped, helping assure that our work force is educated to a high standard, and underwriting the kind of basic scientific research that is too risky or long-term to attract private money. The report calls this the legacy of President Kennedy’s New Frontier, though the largest infrastructure project in our history, the interstate highway system, was Eisenhower’s baby, a reminder of the days when Republicans still believed in that stuff. The other category was “entitlements,” a catchall word for the safety-net programs that provide a measure of economic stability for the aging and poor: Social Security, Medicare, Medicaid, etc. You will not be surprised to hear that the red line tracking entitlements goes up while the blue line reflecting investments goes down. What is alarming is the trajectory. In 1962, we were laying down the foundations of prosperity. About 32 cents of every federal dollar, excluding interest payments, was spent on investments, only 14 percent on entitlements. In the mid-70s the lines crossed. Today we spend less than 15 cents on investment and 46 cents on entitlements. And it gets worse. By 2030, when the last of us boomers have surged onto the Social Security rolls, entitlements will consume 61 cents of every federal dollar, starving our already neglected investment and leaving us, in the words of the study, with “a less-skilled work force, lower rates of job creation, and an infrastructure unfit for a 21st-century economy.” Some of the entitlement bloat comes from the addition of new programs — notably the prescription drug benefit espoused by our second boomer president, George W. Bush, and the Affordable Care Act, though at least that law sets in motion offsetting measures aimed at containing the soaring cost of health care. Some of the growth is built into formulas that increase benefits faster than inflation or G.D.P. And a lot of it is us: boomers, aging into Social Security and Medicare. “We’ve reached the point where our working-age population over the next 30 years grows by one-fifth, and our elderly population grows 100 percent,” said Jim Kessler, the senior vice president for policy at Third Way. Indignant readers are already revving up to tell me that Social Security and Medicare are sacred promises, that cutting them would be stone-hearted Republicanism. A.A.R.P., the lobby for people we used to call senior citizens until we realized that meant us, got hammered by the left earlier this year when its C.E.O. dared to convene a meeting of Washington insiders to even discuss the subject. No wonder A.A.R.P. shies away from supporting any entitlement reform. But the traditional liberal alternatives — raise taxes on the well-to-do, cut military spending — are not nearly enough by themselves. The arithmetic simply doesn’t work, unless we face the fact that entitlements are a bargain we can’t afford to keep, not in full. So the question is not whether entitlements have to be brought under control, but how. The Republican plan espoused by Mitt Romney and his fiscal lodestar Paul Ryan would cut the cost of entitlements largely by moving toward privatization: personal investment accounts for Social Security, vouchers for Medicare. And it’s not at all clear the Republicans would assign any of the savings to investing in our future. At least the Republicans have a plan. The Democrats generally recoil from the subject of entitlements. Centrists like those at Third Way and the bipartisan authors of the Simpson-Bowles report endorse a menu of incremental cuts and reforms that would bring down costs without hitting the needy or snatching away the security blanket from those nearing retirement. They include gradually raising the retirement age to compensate for the fact that we now live, on average, 14 years longer than when F.D.R. signed Social Security into law. They include obliging those of us who can really afford it to pay a larger share. They also include technical fixes like aligning the automatic cost-of-living formula with reality. To curtail the raging inflation of health costs, the government could better use its market clout to hasten electronic record-keeping, replace the fee-for-service model, reform medical malpractice laws and promote living wills. (A quarter of health care spending comes in the last year of life.) But you won’t hear much of that on the campaign trail. Fellow boomers, we have done more than our share to make this mess. It’s not our fault that there are a lot of us, but we have resisted any move to fix the system. We should make a sensible reform of entitlements our generation’s cause. We should stiffen the spines of our politicians, and push lobby groups like A.A.R.P. to climb out of the bunker and lead. (And, by the way, we should resist the boomer temptation to take every cent of the reform from the pockets of our kids.) We should keep the heat on Congress and the president to double down on the cost-saving provisions in Obamacare. We may not be the greatest generation, but we are the largest — and we vote. We throw our weight around. What if we threw some of it in the right direction?

 

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